GUIDA ALLA POLITICA ESTERA ITALIANA. DA BADOGLIO A BERLUSCONI, DI SERGIO ROMANO. LA FARNESINA, LE RELAZIONI ESTERE IN ITALIA E IL MINISTERO DEGLI ESTERI

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Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi (2002)


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Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi
Rizzoli, 2002
Saggi Italiani, 302 p.
Euro 16,50

«Ma all’autore di questo libro piacerebbe che nessuno, fra una generazione, dovesse scrivere una nuova Guida alla politica estera italiana». (Sergio Romano)

Con questo auspicio, Sergio Romano, una lunga carriera diplomatica, storico e noto editorialista del «Corriere della Sera», chiude la sua accurata analisi di oltre un sessantennio di vicissitudini — alcune edificanti, altre da dimenticare — della politica estera italiana.

Guida alla politica estera italiana
indaga la storia delle relazioni dell’Italia con le potenze europee e mondiali a partire dall’agosto del 1943, quando il re e il generale Pietro Badoglio si trovarono di fronte a un bivio: abbandonare la guerra e difendere il territorio nazionale da qualsiasi pressione esterna o allearsi con gli angloamericani e prendere parte ai successivi eventi bellici. La scelta ricadde sulla seconda alternativa e lo sbandamento fu totale. «Dimostrarono in altre parole che l’Italia non poteva né badare da sola alla propria sicurezza, né dare un contributo determinante alla difesa del proprio territorio» — commenta amaramente Romano — sottolineando quanto quegli eventi furono importanti per il presente e il futuro della nazione: quella decisione infatti tracciò il percorso che la politica estera italiana avrebbe seguito negli anni a venire, determinandone le scelte più importanti.

La diplomazia italiana — osservata nell’autunno del 1943 — non diede grande prova di sé, oscillando tra un eccessivo sussulto d’orgoglio nazionale, traducibile nella convinzione che il Paese, come aveva fatto per tante sciagure, avrebbe saputo sopravvivere anche al naufragio fascista, unitamente alla velleitaria consapevolezza di rappresentare ancora un capitale geopolitico importante e spendibile. La tutela degli interessi italiani e il ripristino di una dignitosa sovranità nazionale si dimostrano però due operazioni molto più complesse del previsto e, soprattutto, risultanti non da scelte indipendenti, ma dettate dai contrasti tra gli Stati vincitori.

Il primo ad accorgersi di questa situazione fu Alcide De Gasperi, Ministro degli Esteri dal 1944 al 1946, il quale, scrive Romano: «… divenne italiano come un pastore segue il proprio gregge quando il maltempo lo costringe a passare da una valle all’altra. Era deputato del Trentino e tale sarebbe rimasto negli anni seguenti». Egli agì comunque da autentico uomo di Stato italiano sia nei confronti degli alleati sia per quanto concerne i problemi di frontiera affrontati dall’Italia al termine della Seconda Guerra Mondiale. Tali questioni, al di là dell’abilità di negoziatore di De Gasperi, delineavano una situazione nella quale l’Italia non rappresentava un alleato, non poteva essere considerato un Paese cobelligerante; era una nazione sconfitta cui per convenienza geopolitica e strategica erano state fatte delle concessioni.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale si fece strada un sentimento europeista, al quale, con il beneplacito degli Stati Uniti, aderirono tutte le nazioni del Vecchio Continente, terrorizzate dalle nefandezze della guerra e dalla loro incapacità di farvi fronte.

L’europeismo dell’Italia fu invece una scelta obbligata, considerando la necessità di De Gasperi e Sforza di rivedere completamente gli obiettivi della nostra politica estera — la revisione del trattato di pace, la restituzione di Trieste e delle colonie — a causa della freddezza ora nutrita nei confronti dell’Italia da parte di americani e inglesi, ben lontani dal precedente entusiastico avvicinamento. L’unica arma per evitare l’isolamento divenne proprio innalzare il vessillo dell’europeismo, attraverso il quale l’Italia rientrò nella sfera alleata, registrando anche il consenso, rispetto a tale scelta, di larga parte del Paese.

Le vicende politiche negli anni successivi si susseguirono in maniera alterna, ma sempre all’insegna di una cronica instabilità di governo e di un diffuso malessere sociale, che non mancarono di influenzare l’immagine e la considerazione dell’Italia all’estero, vanificando i notevoli passi avanti fatti in precedenza, cancellati non solo dal fallimento del centro-sinistra alle elezioni del 1968, ma anche dalle rivolte sociali di quel periodo, entrambi indici dell’inizio di un nuovo declino. I grandi cambiamenti politici e sociali della fine degli anni sessanta non investirono solo l’Italia e accomunarono molti Paesi europei, sconvolti da tensioni sociali che presentavano persistenti tratti comuni. La situazione sembrò avviarsi verso una relativa stabilità, ma così non avvenne per il nostro Paese, dove le contestazioni studentesche e sindacali tennero in ostaggio il governo per molto tempo, influenzando la vita politica tanto che il Presidente del Consiglio Mariano Rumor e il Ministro degli Esteri Pietro Nenni faticarono non poco a controllare le proteste sociali; basti pensare che Kissinger nelle sue Memorie annota: «Roma fu la sola capitale dove venne accolto da manifestazioni antiamericane di qualche rilievo».

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[continua––» 2/2]

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 23 maggio 2003
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