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INTERVISTE
Pietro Citati

Vertigine da infinito

Critica: il 'metodo Citati'

(Pierluigi Pietricola)

*
In questa intervista, Pietro Citati ripercorre il Novecento animato dall’interesse per l'infinità del 'senza limite', suggestione che, fin dai tempi dell’Ulisse dantesco, ha affascinato l’umanità.

    Il 'metodo Citati' è una mescidazione armonica che trova riscontro in tre grandi critici: Hofmannsthal, Manganelli e Macchia: dapprima lo scrittore richiama a sé tutto lo scibile, poi inizia a familiarizzare con l’autore e con l’argomento, partendo da qualche dato biografico significativo, di quelli dai quali non si può prescindere per comprendere appieno l’opera che si accinge ad analizzare, per poi illuminarne il cuore fino in fondo, ma, a differenza di Macchia, senza gettarvi sopra un velo d’ombra.

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er comprendere un libro nel suo insieme occorre quella che viene chiamata distanza critica, che altro non è se non la prospettiva temporale, quel sano distacco che sopisce i sentimenti dell’hic et nunc, a favore di una freddezza il più possibile obbiettiva.

A volte occorrono anni per ottenerla, altre mesi o, addirittura, pochi giorni. Libri impossibili da comprendere di primo acchito, si capiscono appena terminati. Libri di facile lettura, all’apparenza anche scontata, dimostrano un tale intrico dal quale è difficile uscire in tempi brevi.

Ecco allora intervenire – fastidiose presenze – i cosiddetti strumenti critici: lo strutturalismo, il formalismo, l’analisi psicanalitica e si immagina di porre l’autore e la sua opera su di un lettino e si principia ad indagare sul suo inconscio.

In realtà per “criticare” un libro occorrono due doti fondamentali: una innata: ed è il talento, che si affina e si sviluppa con gli anni e l’esperienza; l’altra, la propensione a leggere e la capacità di saperlo fare con attenzione.

Se si dovesse descrivere il libro di Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento (Mondadori 2008), se ne potrebbe parlare come di una monumentale scultura che, nelle sue forme e sfumature, rappresenta quello che, in svariate occasioni, viene definito come «il secolo dell’invisibile».

Se si pensa alle scoperte scientifiche in campi quali la fisica, la medicina, la psicologia, o agli orizzonti raggiunti in filosofia, in letteratura, nell’arte del Novecento, dominata in principio dalle avanguardie e a seguire, dalle cosiddette postavanguardie, ci si accorge che l’interesse per l’informe, del je ne sai quoi, vieppiù ha preso il sopravvento.

Difficile definire quest’informe: può essere l’infinito, come lo ha chiamato Citati; l’inconscio, per usare una terminologia freudiana; una sentita spinta metafisica, se vogliamo ragionare in maniera teologica: la si chiami come si voglia, ma resta il fatto che l’interesse per l’informe ha dominato il Novecento.

Citati, in questa sua ultima fatica letteraria, ripercorre il secolo trascorso cavalcando quest’interesse per il “senza limite”, che da sempre ha attanagliato l’uomo, se si vuole, fin da quando l’Ulisse dantesco ha deciso di traversare le Colonne d’Ercole.

Ma Citati non ci parla del Novecento come il comune saggista, sintetizzando gli avvenimenti storici dell’epoca per poi procedere di autore in autore.

Il contesto c’è, ma è come se fosse momentaneamente messo da parte: si prende un autore e lo si affronta di petto, senza circuirlo per renderlo più familiare e quindi procedere all’analisi con minori difficoltà di approccio.

L’idea che si ha, leggendo La malattia dell’infinito, è definitivamente questa: qualsiasi scrittore che decida di affacciarsi alle soglie dell’informe senza limite alcuno, non può scendere a compromessi, non può gettarvi un fuggevole sguardo curioso e poi ritrarsi appagato. L’infinito non ammette alcuna mezza misura. Se si decide di averene a che fare, bisogna accettarlo nella sua totalità, lasciandosi investire dal suo fascino e dalla sua potenza – esso, forza illimitata, e l’autore, inerme succubo felice.

*

D. Per raccontare il Novecento lei ha deciso di scegliere l’immagine dell’infinito. Perché?

L’immagine dell’infinito non nasce nel Novecento. Gli albori di quest’immagine li si possono ricercare in primis nella rivoluzione copernicana, e poi nel XVIII secolo.

Un po’ tutti, nel Settecento, parlano dell’infinito, ma in particolar modo Rousseau, per il quale l’infinito è un’espansione senza limite. Lui si sente chiuso in questo mondo: nel cielo e perfino nell’immagine di Dio. Avverte l’esigenza di espandersi senza fine sino a varcare qualsiasi limite. Sessant’anni dopo di lui, Leopardi scrive sull’infinito la poesia più famosa della letteratura italiana: e siamo in una situazione del tutto rovesciata. Leopardi, per parlare del suo Infinito, a differenza di Rousseau, sente il bisogno di partire dall’idea di un carcere. La siepe che gli sta davanti è un carcere che gli nasconde la vista e gli cancella qualsiasi possibilità di infinito reale.

Leopardi crea un infinito, che è diverso da quello di Rousseau: è esclusivamente mentale, costruito nella sua mente. Gli spazi sterminati sono interamente costruiti dalla sua intelligenza.

Quest’idea dell’infinito, però, lo terrorizza.

Queste sono le due immagini originali, le fondamentali posizioni sull’infinito che si hanno nei secoli antecedenti al Novecento.

Il XX secolo è interamente percorso dall’idea dell’infinito. Se pensiamo a Lord Jim di Conrad, personaggio di cui non conosciamo il cognome, ci rendiamo conto che si tratta di un uomo totalmente divorato dall’infinito: non ha alcun rapporto con la realtà, e nelle due grandi occasioni della sua vita fallisce completamente.

Ci si potrebbe chiedere se, per Conrad, l’idea dell’infinito sia sbagliata. Per Lord Jim non lo è. Ma per avere a che fare con l’infinito è necessario andare fino in fondo: completamente, infinitamente, senza mai fermarsi; quello che Lord Jim non ha fatto. E se si porta fino in fondo l’idea dell’infinito si riceve un premio, che è qualcosa di reale: una farfalla costruita dalla mente: qualcosa che non ha peso, eppure un’importanza decisiva.

In tutto il secolo prosegue questa passione per l’infinito: il punto estremo è Pessoa. Ne era divorato, ma pensava di non poterlo esprimere. Per farlo, gli era necessario moltiplicare se stesso, diventare una serie di poeti – quelli che sono i suoi eteronomi – e in ognuno di questi il problema si poneva nuovamente: alcuni erano appassionati solo all’infinito, altri sentivano l’esigenza di limitarlo.

Potrei dire la stessa cosa per molti altri, ma Pessoa mi pare rappresenti il caso estremo.

D. In qualche maniera anche il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore si moltiplica come autore. Quindi tra Pessoa e Calvino ci può essere un’analogia di questo genere.

Sì, ma non fino al punto di Pessoa.

D. Nel prologo del suo libro, cioè nel primo capitolo, c’è un bellissimo saggio su Benedetto Croce, del quale lei riassume il pensiero, che consisteva nello scorgere nel contingente qualcosa di perenne che lo sovrasta. Forse questa posizione potrebbe essere una giusta mediazione tra una malattia dell’infinito e una della realtà.

Per Croce il perenne non era l’infinito, ma l’universale. Voleva distruggere tutto quello che c’è in noi di individuale. Era un grande psicologo, ma si vietava quest’esercizio perché lo considerava un vizio. Per Croce un uomo, per essere tale, doveva trasformare tutto ciò che vi era di psicologico e individuale in lui in qualcosa di universale.

Trasformando la filosofia in un’entità universale, inevitabilmente si distrugge qualcosa: in primo luogo la psicologia, a seguire l’anima, ma anche la natura: la conquista dell’universale per Benedetto Croce è qualcosa di estremamente doloroso. La sua costruzione dell’universale fu un’opera tragica.

D. Il Novecento è stato colmo di orrori – le due Guerre Mondiali, il Nazismo, la Rivoluzione Russa, la dittatura maoista e via dicendo. Questa malattia dell’infinito potrebbe scaturire da un intimo desiderio di fuga da tali crudeltà?

Di certo è una fuga da questo tipo di realtà. È connesso con l’idea di infinito il comunismo, che spinge all’estremo l’idea di progresso che, però, a un certo punto si arresta perché raggiunge il suo grado di perfezione, e l’infinito non c’è più. Nel Nazismo ciò che è infinito è soltanto la violenza.

*

D. Zolla iniziava così Uscite dal mondo: «Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l’atto più bello che si possa compiere». Lei condivide questa posizione?

Lui certamente voleva uscire dal mondo, e soprattutto dai limiti. Ma ne usciva per esaltare la fissità della contemplazione. La sua fuga aveva come scopo non l’infinito, ma l’immobilità e la perfezione della contemplazione.

D. A proposito di Zolla, nell’ultima parte del suo libro gli dedica un bellissimo e dolce ricordo. Sono sette anni che Zolla non è più tra noi. Quale fu l’aspetto che lo colpì maggiormente di lui?

Eravamo amici fin da ragazzi: io avevo sedici anni e lui venti. Viveva sempre chiuso in casa. Di lui ho l’immagine di un adolescente disteso sul divano che leggeva. Quello che più mi colpì era la cultura che già possedeva a quell’età. Aveva letto tutto: qualsiasi letteratura, e negli anni questo orizzonte di conoscenze andò espandendosi sempre più.

Zolla leggeva a grandissima velocità. Una volta venne a casa mia in campagna. Ci rimase una settimana, e in quel periodo lesse moltissimi libri, alcuni dei quali difficilissimi: uno di questi era Lucano, scrittore complicatissimo, da leggersi attentissimamente: lui lo lesse in un giorno.

La lettura di Zolla era simile a quella di Croce: ad entrambi non importava quello che c’era nel libro, ma le cose di cui entrambi potevano appropriarsi: citazioni o idee che sarebbero potute diventare le loro. E questo spiega la velocità di questa lettura e assimilazione.

Mi colpì molto anche la sua ironia, qualità che pochi conoscono. Zolla, almeno nella prima parte della sua vita, era estremamente spiritoso: con un’ironia a metà tra il buddista e l’angelico, immensamente comico. Con lui ho riso moltissimo: ci telefonavamo una volta al giorno e ridevamo di tutto.

Ho detto una parola: angelico. Per una parte lo era, non apparteneva a questa terra.

In una bellissima pagina che non raccolse mai – si trattava di uno scritto breve – lui parla dell’orrore che subì quando lasciò l’Inghilterra, credo nel 1934, ed entrò a Torino durante l’era fascista. Quello che vide – gente vestita da fascista, i saluti romani, gli inni al duce – lo terrorizzò. Questa, fu per lui, la scoperta della realtà.

Non apparteneva né alla realtà italiana né a qualsiasi altra. Era un angelo con lunghe ali, con uno sguardo acutissimo che sapeva vedere gli orrori del reale in modo molto nitido.

D. Giorgio Manganelli, un altro grande scrittore del Novecento, come lei spiega, creava intorno a sé il vuoto per fare letteratura. O comunque partiva da un confine per avanzare poi verso il centro. Questa è un’idea di infinito al contrario.

In Manganelli c’era anche l’osservazione della realtà: aveva un occhio precisissimo su ogni cosa, che trasformava in una ridda grottesca. Questo lo si avverte in molti scritti, come Improvvisi per macchina da scrivere o nei suoi resoconti di viaggio, dove senso realistico e buffonesco vanno di pari passo.

Per un altro verso Manganelli faceva il nulla attorno a sé, costruendo un mondo che non esisteva, eccetto nella sua intelligenza. Si trattava di un mondo che aveva le radici nel nulla: un nulla che si radicava in un nulla, che era il suo fondamento metafisico.

Un suo carissimo amico, Mario Praz, aveva, invece, la mente infinita. In Praz l’infinito nasceva dallo spirito analogico. Conosceva moltissime cose: tutte le letterature – un po’ meno quelle classiche –, i quadri, le sculture, i mobili, le decorazioni. Quasi niente del mondo della cultura gli era estraneo. Tutto questo non formava, nella sua mente, un universo diviso in molte parti. Tutto ciò che assimilava era tenuto insieme dallo spirito analogico. La sua critica letteraria è una scienza, o un’arte, dei rapporti: un immenso gioco analogico che percorre l’universo come nel Cinquecento, al tempo dei Neoplatonici e degli alchimisti, per i quali l’analogia era la forma fondamentale di conoscenza.

D. Fellini, che non ha scritto molti libri…

Ne ha scritti parecchi, alcuni dei quali non portano il suo nome. Lui scriveva benissimo, ma aveva paura di farlo. Tale era la sua venerazione per la grande letteratura, per uno scrittore come Kafka ad esempio, che gli impediva di scrivere.

D. Ad ogni modo l’infinito di Fellini si concretizzò nella trasposizione dei suoi sogni davanti alla macchina da presa: la stessa sua tecnica cinematografica è onirica in qualche maniera.

A questo non credo molto. Certamente lui sognava e raccontava i sogni, alcuni dei quali assolutamente immaginari. Ma Fellini non era un sognatore: era un costruttore, un inventore di sogni, e su questo giocava.

D. Con Fellini parlavate di tutto…

Eravamo molto amici. Ci vedevamo sempre al ristorante. Non sono mai andato a casa sua, a Via Margutta dove viveva, mentre lui è venuto spesso da me. Sono stato solo al suo studio al Corso d’Italia. Mi veniva a prendere la sera intorno alle otto, con la macchina della produzione luccicante e frusciante, e poi ci dirigevamo al ristorante. In genere erano due: uno La Cesarina vicino a Via Piemonte, e l’altro vicino a Piazza del Popolo. Mangiava poco, come un’asceta e sempre le stesse cose. E intanto parlavamo di tutto: di letteratura, di cinema, della sua vita, di fantasie, di ogni cosa, come ragazzi, con quella fluvialità e torrenzialità che posseggono i giovani di terza liceo. Poi, verso le undici e un quarto, invitava qualche suo amico o amica, e la conversazione continuava con questa terza persona, ma senza quella confidenza totale che c’era quando si era in due.

*

D. C’ è uno scrittore di cui lei parla nel libro, soffermandosi sui suoi occhi: Bassani.

Bassani aveva degli occhi meravigliosi: celesti e gelidi. Lui non era gelido: né come autore e tanto meno come persona.

D. Leggere e scrivere libri, interpretarli come fa lei, è, un po’, avere a che fare con l’infinito.

È una questione di identificazione: cercare di penetrare nell’altro, divenire completamente l’altro. C’è un obbiettivo preciso, ma non una fuga diretta verso l’infinito.

D. Però, come diceva Sainte Beuve…

…Cambiare ogni sera i vestiti, la persona come un attore. È una metamorfosi continua.

D. Ho un’immagine musiliana della critica: la punta di un chiodo che si prova a fissare su di uno zampillo d’acqua.

È un’immagine stupenda, e Musil era un uomo dall’intelligenza straordinaria. Lo zampillo travolge il chiodo e quindi la metamorfosi del critico è destinata a un fallimento.

Un altro scrittore dell’infinito, Borges, ha dedicato un monumento alla lettura con il racconto della Biblioteca di Babele, anch’essa senza fine.

La biblioteca di Babele era fatta soprattutto di dizionari che comprendevano non soltanto i nomi di tutte le cose reali, ma anche di quelli irreali. Quindi una molteplicità senza fine.

In Borges, che aveva questo senso della fuga e della molteplicità dell’enciclopedia, c’è una forte volontà di chiudere l’infinito entro strette pareti, che poi erano quelle dei suoi racconti. Il fluire eracliteo delle cose è riportato all’essere in Borges, che era un parmenideo.

D. Hofmannsthal…

Personalità immensa. Da giovanissimo scrisse delle poesie. Scrisse dei saggi più tardi. Non era propriamente un critico, ma un saggista. Le pagine critiche che, per esempio, ha dedicato a Goethe e alle Mille e una notte non mi persuadono affatto.

Era meraviglioso nel tessere i rapporti, nel mettere in rapporto ogni cosa. Aveva grandi periodi, avviluppati, larghissimi e ricamatissimi, nei quali entrava tutto il mondo..

D. Un grande centro calamitico quindi, che attirava a sé l’infinito…

Attirava a sé tutto, come faceva Praz, ma certo in modo più straordinario.

D. In questo suo libro c’è la crema della letteratura del Novecento…

Non tutto: ad esempio è assente Faulkner, a Kafka ho dedicato un libro a sé e lo stesso vale per Fitzgerald e molti altri. Però mancano Joyce, Thomas Mann, Pasternak, Bulgakov, Svevo, la Morante: e questo sia perché non ho scritto nulla su alcuni di questi, e sia perché quello che ho scritto non mi piace.

Ci sono pochi poeti, e quelli presenti sono quasi tutti italiani. Sono molto riluttante a parlare di poesia quando è scritta in una lingua che non possiedo.

D. Facendo un gioco al contrario, quali sono gli autori peggiori del Novecento, escluso il Nobel per la letteratura di quest’anno di cui ha già parlato nei scorsi giorni…

Le Clezio non è neanche è brutto: è nullo. Ad esempio non mi piace Gunter Grass, escluse le prime cento pagine Il Tamburo di latta; non mi piace affatto Sartre, esclusa La nausea. Non amo né il Sartre filosofo né il Sartre saggista. Ha scritto duemilacinquecento pagine su Flaubert senza arrivare a parlare di Madame Bovary. È un libro mostruoso, pieno di cose intelligenti, ma non si riesce a navigare in quella melma. Era incapace di limite: era verboso, intollerabile.

D. Oriana Fallaci?

La Fallaci non era neanche una scrittrice: era una pattumiera.

D. Quest’anno Cesare Pavese avrebbe compiuto cento anni. Che ricordo serba di lui?

Non l’ho conosciuto come persona. E quanto allo scrittore sono pieno di dubbi. Un tempo mi piaceva moltissimo. La prima recensione che feci su Pavese riguardava il suo diario, Il mestiere di vivere. Mi piacevano molto La bella estate, La luna e i falò, mentre non mi piaceva affatto Paesi tuoi. Ora non saprei dire. Dovrei rileggerlo per dare una risposta, ma non ho il tempo di farlo.

D. Cos’è che le manca di più dei suoi amici?

Che erano i miei amici, pur essendo diversi tra loro. Bertolucci era molto diverso da Fellini, Calvino diversissimo da Manganelli…

D. Di Calvino?

Era più vecchio di me di sette anni. Ci conoscemmo in un’occasione buffa. Io dovevo tenere un discorso nella sede del partito Social Democratico, e lui venne con alcuni suoi amici comunisti. All’epoca era molto comunista. Del comunismo gli piaceva tutto. Queste sciocchezze è grave commetterle, anche se si è giovani e ingenui.

D. E di Gadda?

Tutto. Era un uomo straordinario. Ci vedevamo due o tre volte alla settimana. Ci telefonavamo un paio di volte al giorno. Mi chiamava sempre all’ora di pranzo, mentre mangiavo la mia adorata bistecca. All’una e mezza sentivo trillare il telefono e pensavo: «Questo è Gadda». Le telefonate erano lunghissime: mi chiedeva cosa doveva fare con le tasse, come doveva comportarsi con l’editore: parlavamo di ogni cosa, tragica o buffa che fosse. Naturalmente, quando tornavo a tavola, la mia bistecca era immangiabile. Mi manca moltissimo. È l’unica persona grande che abbia conosciuto.

Quando leggeva le mie recensioni sui suoi libri mi diceva: «Lei esagera sempre con me. Io non sono così grande».


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NOTE
Le immagini (dall'alto): Pietro Citati, Jean Jaques Rousseau, Federico Fellini, Hugo Von Hofmannsthal



BIBLIOGRAFIA
Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Mondadori, 543 pagine, 22 euro

Milano, 2008-10-29 08:56:33

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