ITALIALIBRI - RIVISTA MENSILE ONLINE DI LIBRI ITALIANI, BIOGRAFIE DI AUTORI E RECENSIONI DI OPERE LETTERARIE

DOSSIER
Camillo Sbarbaro

La formazione di “Pianissimo”

L’esperienza dell’interiorità

(Daniele Pettinari)

*
Ripercorrendo la vita di Camillo Sbarbaro negli anni che vanno tra il 1910 e il 1911, affiorano le ragioni ideali ed esistenziali che condussero il giovane poeta a comporre i versi fondativi di quel corpus organico di testi che è "Pianissimo". Il cuore quale “sismografo” di un periodo storico-letterario, è testimone di una vicenda personale ugualmente condivisa da altri scrittori d’inizio Novecento.

*

n un’intervista formulata come confessione di sé, Eugenio Montale racconta: «Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia.

Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni. Ritengo si tratti di un inadattamento, di un maladjustement psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche.»

La dichiarazione di estraneità potrebbe essere ben accolta e condivisa anche da Camillo Sbarbaro nella medesima percezione di una disarmonia rilevata nella realtà e raccontata con un’urgenza e una necessità che solo sulla pagina scritta avevano modo di essere espresse, nella libertà di una forma poetica lungimirante usata come medium per raccontare le innegabili «ragioni di infelicità» di una vita sentita come estranea, disposta ad aprirsi a qualche ragione d’essere solo nella trasposizione figurata di un “io” raccontato, modellato, posto in scena. Gli eventi del biennio 1910-1911 costituiscono lo sfondo concreto, nella vita di Sbarbaro, di quel radicato senso di malessere che, a ragione, potrebbe definirsi come una sorta di «maladjustement psicologico e morale»: il precario stato di salute del padre si aggrava, le ristrettezze economiche della famiglia lo costringono ad impiegarsi alla Siderurgica di Savona, il sodalizio con i compagni liceali di un tempo si incrina a più riprese, svaniscono a intermittenza persino le aspettative riposte nell’esercizio della scrittura, guardata ora con un senso d’insofferenza. Questi fattori, che conducono Sbarbaro senza una sua precisa volontà, anzi contro la sua volontà, ad assistere impotente all’umiliante mortificazione del padre nella malattia e all’alienazione di sé nell’odiata occupazione impiegatizia, sollecitano «una sequenza di reazioni graduali e molteplici, il formarsi, insomma, di quel groviglio psicologico e emotivo assai delicato, cui si è data voce in Pianissimo, dove la poesia si fa trascrizione di una tormentosa vicenda di tesa afflizione.» L’uscita d’emergenza da questa situazione insostenibile ricorre nella vita e nella poesia attingendo a ben collaudati sistemi: il fiero ripiegamento in se stesso, la solitudine che diventa isolamento interiore, il conforto donato dalla natura, la sopravvivenza come unica condizione possibile di esistenza. A conferma di tale situazione, non vi è testimonianza più scoperta delle lettere inviate all’amico Angelo Barile proprio durante il 1910:

    «Domenica scorsa sono andato a Pontinvrea; dacché sono in Siderurgica, la prima volta che mi sono divertito davvero. La passeggiata che si fece insieme ai Giovi sarebbe stata pure bella, se… si fosse chiacchierato meno di letteratura. Questo è per te. Io odio, ho proprio in uggia la letteratura; non è una posa: quando citavi dei versi era come mi schiaffeggiassi… Caro Angelo, ho da farti una confessione? più mi guardo intorno più mi rallegro di essere io. Tra tutti gli amici, due o tre ne distinguo che si possono guardare senza compassione o riso; tu, Volta e Agnino. Eppure nemmeno voi tre mi sento di invidiare; nemmeno te…»

*

L’odio proclamato da Sbarbaro verso la letteratura – come precisa egli stesso – non è «una posa» letteraria, una fictio costruita a bella posta per tentare di smarcarsi apertamente e porre una netta distanza dalla retorica del recente passato e dell’ingessata tradizione. La distanza è necessaria in Sbarbaro allorquando la letteratura si pone come succedaneo alla vita, fazzoletto teso a raccogliere le lacrime degli smunti poeti crepuscolari o fiammifero di improvvise accensioni liriche che si risolvono, sul modello dannunziano, nell’esaltazione dell’autore e delle sue manie di partecipazione vitalistica al mondo. Sbarbaro sa che l’esperienza della vita viene prima del racconto della vita, e lo supera di gran lunga: l’esperienza personale, insomma, è degna di cittadinanza nel mondo fittizio delle lettere solo quando l’autore non può fare a meno di raccontare sé, dispiegando sul foglio l’urgenza di una scrittura che nient’affatto si pone come modello (anzi, viene recepita dai più come anti-modello) e nemmeno come cassa di risonanza di soggettivi malesseri ed esaltazioni, ma piuttosto come discreta proposta di conoscenza del mondo – di cui si tenta di coglierne i segnali, gli indizi, le orme inseguendo il filo di un senso smarrito eppure disperatamente ricercato – e di auto-conoscenza, nella parallela ricerca di un sistema valido a dare ragione di quel micromondo, certo più oscuro e intricato, che è il proprio cuore. Il rifiuto, solo proclamato, dell’impegno letterario viene compensato da un graduale soggettivismo dell’esperienza pratica e, come in un riverbero, dell’impegno intellettuale. Si legga a proposito la cartolina dell’8 settembre del ’10 all’amico Barile e se ne assapori il tono risoluto, deciso, programmatico, dello stato d’animo interiore (vissuto e confessato nella scrittura) di Sbarbaro:

    «Tu che puoi insegnarmi tante cose, impara questo da me: a esser solo. Vedi? io che non metto mai esclamativi ai miei versi, che non potrei piangere in presenza di un altro, fosse mio padre, ho questa risorsa: d’avere in me la migliore compagnia e nella natura, la consolatrice…»

Compaiono qui alcuni dei motivi privilegiati della futura produzione sbarbariana: il senso di solitudine riversato nell’amore per la natura, il pianto quale raro abbandono che si dà solo in segretezza, l’ingresso della figura paterna nelle testimonianze dell’autore, tutti elementi fermati nella rappresentatività di emblemi in Pianissimo.

A dire il vero, vi sono testimonianze che smentiscono l’autosufficienza interiore vantata da Sbarbaro insieme alla presunta disaffezione nei confronti della letteratura, la quale, sebbene privata dei “punti esclamativi” dell’ironia (posti con abbondanza, altresì, nelle poesie dell’opera giovanile Resine, anche in vista dei “giochi” di contraffazione a distanza degli insigni autori di fine secolo) e indirizzata verso toni di amara disillusione e rassegnata consolazione, in molti casi rappresenta l’unica ragione di speranza verso «un’altra più duratura primavera». La fiducia riposta da Sbarbaro nei versi come promessa di un futuro più rispondente alla sua vocazione espressiva e alla sua realizzazione come uomo, è affidata ad un ricordo conservato tra i Fuochi fatui:

    «Aspettavo il treno al paese dov’ero venuto a congedarmi dal ragazzo ch’ero stato sinallora. Era un mattino torbido di marzo; nella nebbia che velava le colline, macchie qua e là di colore promettevano la nuova primavera; una primavera non più mia, da intravedere: l’indomani mi impiegavo. A difendermi dalla prospettiva d’una vita di travet, ogni poco toccavo in tasca, m’accertavo della sua esistenza, il foglio dove il giorno innanzi, nell’articolo d’un illustre critico, con sorpresa avevo incontrato in tutte lettere il mio nome; e di lì attingevo ogni volta la speranza in un’altra più duratura primavera che mi avrebbe compensato di quelle che perdevo; speranza d’un attimo cui toglieva subito credito la sfiducia in me stesso.»

*

La speranza in una nuova «primavera» della vita viene propiziata dal trasferimento a Genova, a partire dal 1911, per esigenze lavorative: l’incontro con la città, se da una parte offre l’opportunità di evadere da un angusto ambiente provinciale, dall’altra inaugura un periodo devastante che avrà come sfondo sordidi bordelli e tetre osterie, frequentate da Sbarbaro con la complicità degli amici genovesi e, in particolare, di Carlo Tomba. Se slanci vitalistici sussisteranno, non saranno finalizzati ad altro che all’appagamento fuggevole dei sensi, alla dimenticanza di sé nell’inebriamento e nell’ottundimento della ragione, all’esasperazione volontaria della propria sofferenza. La città dunque, esibita in molte pieghe, soprattutto notturne, e raccontata intensamente nelle pagine di Pianissimo, suscita nell’autore un sentimento di attrazione e repulsione al contempo, scatenando così un lacerante dissidio che, in relazione alla connaturata tensione verso la natura, vissuta come luogo primigenio di purezza e conforto, costituisce il doppio binario su cui si svolge la vicenda interiore e poetica di Sbarbaro. La città, fertile campo di battaglia di questa livida saison en enfer vissuta dal nostro autore, oltre ad appagare un sottile istinto autolesionistico, «è sentita come esemplare concrezione del proprio stato di immobilità, solitudine e indifferenza oppressiva, governata sul ritmo di una ferrea necessità dalle squallide risonanze notturne.» Il “truciolo” dedicato a Carlo Tomba, pittore e fotografo lombardo stabilitosi a Genova, considerato per un certo periodo da Sbarbaro come l’incarnazione stessa di quel ribelle che egli stesso sentiva di essere, è sintomatico del clima sociale e culturale che ha preparato la nascita di Pianissimo: clima per certi versi unico, vissuto con un’intensità e una partecipazione emotiva difficilmente ripetibili:

    «Se penso la mia gioventù – poca e artefatta –, vedo il bianco affilato viso di lui che mi sedeva in faccia nella luce falsa delle taverne. Tra noi era il mezzolitro, centro di un mondo. Bicchiere su bicchiere, si beveva finché la mano dell’uno cercava quella dell’altro. Il gelo era rotto per cui ci toccavamo come spettri. E s’usciva a braccetto per il mondo trasfigurato. Nella piazza il cantastorie allargava cerchi di incanto che si stentava a varcare. Come d’un eldorado, andavamo in cerca d’una locanda, quasiché la più meschina e fuori mano fosse per rivelarci un nuovo aspetto della città – che disperavamo di abbracciar tutta. I quartieri poveri erano i preferiti. Facendone degli occhi l’amoroso inventario, perlustravamo i vicoli, le piazzette…»

L’ingresso di Sbarbaro in città segna il discrimine nel passaggio verso l’età adulta, in quanto la sua «poca e artefatta» giovinezza, rielaborata nei cassetti della memoria con spietata lucidità, viene giudicata complessivamente in senso negativo, mentre persiste il ricordo dell’antica dolcezza di quegli attimi folgoranti, di quegli istinti di esaltazione nella perdizione, di quel «mondo trasfigurato» nell’immaginazione, ormai del tutto perduti: e così «quell’artefatta è la spia del rifiuto di Sbarbaro alla letterarietà, fondamentalmente falsa e perciò spregevole, di certi atteggiamenti giovanili.» La «piazza», la «locanda» – possibilmente «la più meschina e fuori mano» –, «i vicoli», «le piazzette» costituiscono i segni tangibili delle peregrinazioni del poeta in quello che Campana definirà il «panorama scheletrico del mondo» , nella cui ossuta aridità Sbarbaro riconosceva il tormento della sua anima, e l’occasione propizia a quelle «tristi abdicazioni agli amori mercenari» , vissute con spirito di cangiante voluttà, presto destinate a trasformarsi in sentimento di pietà e autocommiserazione. Veramente una «fanciullezza tormentosa assetata» quella sperimentata da Sbarbaro, convergente per molti aspetti a quella vissuta da Dino Campana negli anni della giovinezza e cantata amabilmente nella prima sezione dei Canti orfici, pubblicati nel 1914 proprio come Pianissimo, dall’emblematico titolo La notte. Nella dimensione del ricordo di un tempo passato e trasfigurato nel sogno, Campana rievoca le proprie scorribande notturne, vissute in compagnia di una vasta e colorita folla cittadina, trasposte letterariamente in una forma a metà tra il mito ancestrale e l’esperienza onirica: «visioni lontane» di un «mito lontano e selvaggio» riposto da sempre nella memoria mostrano «una vecchia città, rossa di mura e turrita», causa di «sensazioni oscure e violente» nell’anima del poeta, insieme ad una «torre barbara», esotica figurazione di un campanile, svettante nel cielo come «mitica custode dei sogni dell’adolescenza». Nell’oppressione di un «Agosto torrido», la città diurna si presenta come stilizzazione di un deserto – che è anche e soprattutto quello interiore – in cui risulta impossibile non solo dare un senso agli avvenimenti slegati dell’esistenza ma anche garantire la propria sopravvivenza:

    «Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città.»

Una città tratteggiata dalle parole di Campana come avrebbe fatto, con i pennelli, Giorgio De Chirico dipingendo uno dei suoi paesaggi “metafisici”: nel vuoto spaziale-esistenziale di una città terribilmente assolata, e perciò ostile alla presenza umana, l’unica forma vivente rintracciabile è quella dei manichini, degli uomini ridotti a cose, alienati da sé e dal mondo. Sbarbaro stesso, dando di sé una definizione eloquente nella sua sinteticità, quando guarda retroattivamente alla sua vita di questi anni non può fare a meno di operare una riduzione cosale del proprio “io”, figurandosi quale «marionetta tragicomica, unico protagonista d’un’avventura disumana».

Calato il tramonto, la luce del giorno e della ragione comincia volutamente ad ottenebrarsi nel buio della città e della coscienza: l’affievolimento della luce del sole conduce, in maniera graduale, all’affioramento di istinti torbidi e sensuali già, nel precoce Campana, a partire dalla sera (mentre Sbarbaro aspetta che si faccia notte fonda per confondersi nell’anonimità degli essere vaganti per la città oscura):

    «Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.»

E ancora, illuminando di colori diversi e tonalità finora sconosciute i vecchi cari bagliori crepuscolari, Campana mostra «la magia della sera» senza edulcorare lo spazio della poesia con rinvii ad elementi dal tono malinconico-patetico, e senza neppure immergersi improvvisamente negli abissi della notte:

    «La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno misterioso. E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita. Ma la sera scendeva messaggio d’oro dei brividi freschi della notte.»

Anche il «regno misterioso» di Sbarbaro è popolato di tanti personaggi, «anime infeconde» se non di larve, fantasmi e chimere che occupano lo spazio reale della città e invadono, in un istinto di partecipazione emotiva – che fa parte di un generale processo di interiorizzazione attivo e produttivo in questa fase poetica – la cittadella interiore del poeta, a cui è così concesso di moltiplicare all’infinito le proprie possibilità di vita: «vite d’un attimo», esistenze altrui rubate e fatte proprie, improvvise accelerazioni esistenziali atte ad intensificare una condizione, la propria, sentita come insufficiente, manchevole, vacua:

    «Oh le vite che abbiamo vissuto! Eravamo, per momenti, la ragazza seria al banco; il contabile che viene a forbire le lenti sulla soglia del fondaco; la vecchia che ritira il soldo nel luogo pubblico; l’uomo buio che si scontra; la bambina che traversa a salti la strada e che un portico ingoia… Vite d’un attimo; più intense della nostra, vacua…»

Il ricordo di «questo disancorato vagabondare», modulato sull’esperienza “maledetta” di Baudelaire (la «simpamina» della sua adolescenza) e degli amici genovesi, ben presto rifiutato da Sbarbaro, è materia comune – abbiamo visto – di un altro grande “irregolare” come Campana, immerso ancor più intensamente nel pericolo della dispersione di sé, in un atteggiamento di «supino amore delle cose», di adesione passiva e totale al fluire oggettuale della vita, inevitabilmente indirizzato all’auto-annullamento:

    «Oh! ricordo!: ero giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartine levigate e flessuose, consacrato dalla mia ansia del supremo amore, dall’ansia della mia fanciullezza tormentosa e assetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso. Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii.»

*

In Sbarbaro, la fuga da certe aspirazioni di letterarietà della vita, sentite ad un certo punto come estranee al proprio mondo interiore e concettuale, si coniugano con uno stato d’animo del tutto opposto a quello del giovane che posa a fare il poeta, ansioso di inseguire «le larve del mistero» con tutto il bel corredo ricamato di «enigma» e di «tormento». La poesia di Sbarbaro si radica piuttosto sulla sua esperienza personale e sulla sua figura di uomo, prima che poeta, alle prese con un senso di alienazione da sé, causato dall’indisponente lavoro impiegatizio, e un sentimento di indifferenza alle sorti dei propri familiari, in relazione soprattutto alla malattia del padre, vissuti con un esacerbato senso di colpa, i cui riflessi saranno evidenti nelle poesie del periodo.

Ed è proprio quando la vita di Sbarbaro si trova immersa nella «lunga notte piena degli inganni delle varie immagini» – inganni strozzati da Sbarbaro sul nascere, dolorosamente abortiti, creduti per un attimo ma non produttivi come nel mondo interiore di Campana, dove trovano terreno fertilissimo in un’esistenza immaginaria, mentale, letteraria, del tutto sostitutiva quella reale – che vedono la luce le poesie di Pianissimo, edite dalla Libreria della Voce di Firenze nel 1914, parallelamente all’uscita dei Canti Orfici, pubblicati dalla Tipografia Ravagli di Marrani, a Firenze, sempre nel 1914. Il senso di estraneità dal mondo, di ostilità nei confronti della realtà esterna, sentita come nemica della verità, convenzionale, borghesemente perbenista, conduce Sbarbaro (e con ben altra radicalità anche Campana) a preservare e potenziare il bacino di ricezione interiore dell’anima, luogo dove le esperienze soggettive della vita si trasformano in finissime sensazioni personali, dove la profondità dell’“io” viene messa allo scoperto insieme alle sue lucide intuizioni ed oscure intenzioni, dove l’aridità esistenziale diviene elemento produttivo sul piano letterario. Infatti «l’abbrutimento di sé perseguito durante il Tempo di Pianissimo – tempo naturalmente prolungatosi in quello dei primi Trucioli – sembra rispondere […] a pulsioni contraddittorie. Il tentativo di fornire di segno, sia pure negativo, una realtà di grado zero che gli impegni dell’ufficio, i ritrovi in famiglia e i periodici spostamenti tra Genova e Savona scandiscono su ritmi sempre identici, certamente scatena il bisogno di potenziare le proprie capacità recettive, acuendo una sensibilità come narcotizzata dal prepotente senso di estraneità.» Non sarebbe inappropriato parlare di “masochismo sbarbariano”: la sua «brama di umiliazione» va intesa, tra le altre cose, «come conseguente alla sensazione d’inettitudine procurata dal progressivo deperimento del padre, e quindi, in una sorta di circolo vizioso, come una forma di autopunizione» . Elementi, insomma, come la lontananza, l’indifferenza, l’inettitudine, che costituiscono paradossalmente materia vitale laddove la risposta a quegli stati d’animo risulti equivalente al desiderio di vicinanza, alla frustrazione consapevole, alla resa necessaria. Si legga, a questo proposito, la cartolina che Sbarbaro scrive a Barile quasi certamente nel 1912:

    «… e così finiscono le mie ferie con questa giornata di quaresima; il pensiero di aver tenuto un po’ di compagnia a mio padre, è quanto ne ho ricavato. Se anche l’Ilva mi stipendiasse per restare a casa, tornerei in ufficio. Quando sono là, ridiventa struggente quello che è qui. Non è piccolo vantaggio.»

A livello artistico, il radicamento di questo meccanismo di voluta, ricercata autocondanna permette al poeta di esacerbare l’intensità delle proprie percezioni e, su questa iperbolica lunghezza d’onda, trasferirle nei suoi testi poetici. Si legga ad esempio questa incontrovertibile prova letteraria, tratta dai Trucioli, dalla quale si deduce come la sofferenza, in Sbarbaro, possa trasformarsi in tensione verso uno stato vitale attraverso procedimenti di volontaria distruzione, senza i quali la vita sarebbe un continuo, identico ritorno dell’uguale:

    «Per strizzare dalla vita il suo bene più forte, l’amaro, queste ultime gioie voglio distruggere, bambino che calpesta il giocattolo per piangere poi disperato.»

Il biennio 1910-1911 è dunque da ritenersi fondamentale nella fase di costituzione del clima psicologico-esistenziale, e quindi poetico, all’origine della nuova silloge poetica, sebbene non vi sia alcun indizio accertabile che attesti la scrittura delle poesie di Pianissimo in questi anni. Vero è che il “silenzio” sia letterario che epistolare durante il 1911, specie nella corrispondenza con l’amico Barile, lascerebbe pensare ad una svolta decisiva. Rimangono comunque le testimonianze di un tempo, per quanto arido e solitario a livello esistenziale, molto produttivo in senso letterario: Sbarbaro lavora contemporaneamente alle nuove «poesie intime», alle novelle di maggiore impegno e ai primissimi «trucioli», varcando così la soglia della produzione in prosa con i primi esperimenti narrativi e forse teatrali. Il «lavoro» di scrittura salva Sbarbaro, anche solo per brevi attimi, dal rischio dell’esasperazione causata da una condizione di vita sentita paradossalmente come deficitaria di vita, insufficiente, mancante e per ciò stesso precaria. Rispondendo a Barile, che lo rimproverava per la sua «leggerezza» – “paradiso artificiale” di un’esistenza, soprattutto mentale, insostenibile – così Sbarbaro illustra il suo «vuoto» ontologico, che è anche quello tipico di tutta una generazione di artisti vissuti a inizio Novecento:

    «Nella tua fai la disamina (!) della mia leggerezza. E hai ragione, ma guardando dall’esterno; non mi rimproveresti l’alcol se sapessi a che si riduce il mio vivere quando, finito di lavorare, resto vuoto: il mangiare e gli altri bisogni diventano tutto; un motivo di canzonetta mi dirada il sangue e mi dà l’agilità necessaria per commettere qualunque cosa; non vedo più ostacoli, non conosco più umiliazione… Bevo per uscire da quel vuoto… Sono stanco, caro A., di tirare avanti così tra l’ufficio che ingrettisce, acciacca, storpia moralmente, i cari dolci visi familiari che sin che viva m’accompagneranno, le strettezze, le privazioni. Tutto ciò e peggio è sopportabile quando lavoro, ma quando non lavoro…»

Torna idealmente alla mente il vuoto delle piazze assolate e mistiche di De Chirico con le sue statue silenziose, gli edifici come fondali inconsistenti, l’inquietante torre rossa, la presenza immota e silenti dei manichini; torna il vuoto della città vissuta da un «poeta notturno» come Campana nella pienezza dell’oscurità, nell’intensità peccaminosa della notte, nel caleidoscopio di forme sibilline offerte dalla «Chimera» ; torna la particolare condizione esistenziale di Sbarbaro che ritrova in se stesso il vuoto del secolo, ponendosi in un’incerta sospensione tra immobile passività e frustrante attesa, e proprio in questo vuoto, pieno del ciarpame del mondo, insozzato dal fango dell’esistenza, disseccato dall’arsura della notte, incontra i suoi artificiali «paradisi di fecondazione»: «sotto la piena avversa», «nel cuore/ del macigno», nelle «pozze d’acquamorta», «nei fossi», nei «botri» e nei «disseccati/ ruscelli pirenaici», nel «bronco seppellito», nel «fango», proprio come L’anguilla di Montale, anticipata nel contenuto e nel linguaggio dalla condizione esistenziale di Sbarbaro,

    «l’anima verde che cerca vita là dove solo morde l’arsura e la desolazione».


Per esprimere la tua opinione e partecipare al dibattito aperto innescato su questo autore:



NOTE
La Fondazione De Chirico è situata nell'appartamento che De Chirico occupò a Roma, a partire dal 1947 e fino alla sua morte, nel 1978, nel palazzetto barocco dei Borgognoni, in Piazza di Spagna.
Le immagini in questa pagina sono tratte dalla tarda produzione dell'artista. Dall'alto: Pianto d'amore, 1974; Il rimorso di Oreste, 1969; Il riposo del gladiatore, 1968; Orfeo trovatore stamco, 1970.



BIBLIOGRAFIA
- Resine, Genova, Caimo, 1911; ristampato nella collana Opera Prima, diretta da E. Falqui, Milano, Garzanti, 1948; edizione critica a cura di G. Costa, Milano, Scheiwiller, 1988.
- Pianissimo, Firenze, La Voce, 1914.
- Trucioli (1914-1918), Firenze, Vallecchi, 1920.
- Liquidazione, Torino, Ribet, 1928; Milano, Scheiwiller, 1990.
- Trucioli (scelta delle prose dal 1914 al 1940), Milano, Mondadori, 1948; ivi, 1960.
- Pianissimo (stesure 1914 e 1954), Venezia, Neri Pozza, 1954.
- Rimanenze, Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1955; seconda ed., ivi, 1956.
- Fuochi fatui, Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1956; seconda ed. accresciuta, ivi, 1958; terza ed. accresciuta, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962.
- Primizie, Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1958.
- Scampoli, Firenze, Vallecchi, 1960.
- Poesie, Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1961.
- Fuochi fatui, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962.
- Gocce, Milano, Scheiwiller, 1963.
- Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis Vivante dalle sue lettere, a cura di C. Sbarbaro, Verona, Stamperia Valdonega, 1963; Milano, Scheiwiller, 1964.
- Il Nostro e Nuove gocce, con un saggio di E. Montale e un’iconografia a cura di V. Scheiwiller, Milano, Scheiwiller, 1964.
- Contagocce, Milano, Scheiwiller, 1965.
- Bolle di sapone, Milano, Scheiwiller, 1966.
- Cartoline in franchigia, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1966.
- Vedute di Genova, 1921, Milano, Scheiwiller, 1966.
- Quisquilie, Milano, Scheiwiller, 1967.
- Licheni: un campionario del mondo, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1967.
- Ricordo di Giorgio Labò, Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1969.
- Poesie (edizione definitiva), Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1971; ivi, 1973.
- L’ultimo scritto di Camillo Sbarbaro, Genova, All’insegna della tarasca, 1973.
- La trama delle lucciole. Lettere ad Angelo Barile (1919-1937), a cura di D. Astengo e F. Contorbia, Genova, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, 1979.
- Poesia e prosa, antologia a cura di V. Scheiwiller, con una prefazione di E. Montale, Milano, Oscar Mondadori, 1979.
- Pianissimo (stesura 1914), edizione critica a cura di L. Polato, Milano, Il Saggiatore, 1983; Venezia, Marsilio Editori, 2001.
- L’opera in versi e in prosa. Poesie. Trucioli. Fuochi fatui. Cartoline in franchigia. Versioni, a cura di G. Lagorio e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1985; ivi, 1995; ivi, 1999.
- Trucioli dispersi, a cura di G. Costa e V. Scheiwiller, Milano, Scheiwiller, 1986.
- Lettere inedite (1955-57), a cura di E. Barbieri, Roma, Bulzoni, 1988.
- Trucioli (1920), edizione critica a cura di G. Costa, Milano, Scheiwiller, 1990.
- Il paradiso dei licheni. Lettere ad Elio Fiore: 1960-66, a cura di A. Zaccuri, Milano, Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, 1991.
- Cara Giovanna. Lettere di Camillo Sbarbaro a Giovanna Bemporad (1952-1964), Milano, Edizioni Archivi del ‘900, 2004.
- Il mio “primo vagito”, a cura di G. Farris, Savona, Savelli, 1982.
- Catalogo delle lettere di Camillo Sbarbaro a Lucia e Paolo Rodocanachi (1929-1967), a cura di C. Peragallo; introduzione di F. Contorbia, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2006.

Milano, 2007-06-06 09:38:36

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Ugo


«In un’epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro.»

(Cristina Campo, Gli imperdonabili)

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Per una psicanalisi non istituzionalizzata
Al di fuori di qualunque dogmatica moralità
Si può uccidere la psicanalisi, dice Cesare Viviani ('L’autonomia della psicanalisi'), facendone uno strumento del conscio per neutralizzare l'inconscio o, più rozzamente assimilandola alla psicoterapia, oppure, confondendo l'ermeneutica con l'interpretazione e, ancora, utilizzandola al fine di un'omologazione culturale. (Roberto Caracci)
Fragilità dell'identità nazionale
(Ma l'universale umano è un valore superiore)
Claudio Magris parla della natura che riveste un confine a lui prossimo e di quell'altra, la natura degli esseri umani. Parla di alcune opere che la sua penna felice ci ha donato, parla della letteratura e dei suoi guasti e parla del proprio rapporto con il lettore. Parla della lingua, dell'identità e della cultura nazionali come opportunità di conoscenza ma anche di disconoscimento. Parla della globalizzazione, della competitività e della crescente difficoltà che uno scrittore incontra oggi se vuole coprire fino in fondo il proprio ruolo d'intellettuale. (Sergio Sozi)
La formazione di “Pianissimo”
L’esperienza dell’interiorità
Ripercorrendo la vita di Camillo Sbarbaro negli anni che vanno tra il 1910 e il 1911, affiorano le ragioni ideali ed esistenziali che condussero il giovane poeta a comporre i versi fondativi di quel corpus organico di testi che è "Pianissimo". Il cuore quale “sismografo” di un periodo storico-letterario, è testimone di una vicenda personale ugualmente condivisa da altri scrittori d’inizio Novecento. (Daniele Pettinari)

Blackout
Dall'oscurità, la luce...
Per tre personaggi, ognuno con la propria storia, la notte bianca di Roma del grande blackout del 2003 diventa motivo di scoperta e nuova consapevolezza. Erica, in deficit di sonno, culla la sua bambina e fantastica di volare; Francesca affronta nell'oscurità un uomo semi-sconosciuto e una nuova relazione; Adriano, stanato dalla paralisi degli elettrodomestici apre gli occhi per la prima volta dopo lungo tempo e vede il mondo reale... (Roberta Andres)
Democrazia critica
Un contributo illuminante e una proposta per contrastare alcuni fenomeni degenerativi della società democratica
Nel saggio ‘Il crucifige e la democrazia’, secondo il sottile e sofisticato ragionamento di Gustavo Zagrebelsky, una teoria della democrazia come fine e non solo come mezzo deve saper proporre un modello di pensiero ‘che non presuma di possedere la verità e la giustizia, ma nemmeno ne consideri insensata la ricerca’. (Redazione Virtuale)
Stefano Finiguerri
La sua poesia canzonatoria imperversava nelle osterie
Nel clima di atmosfera festosa susseguente alla capitolazione di Pisa ghibellina ad opera dei guelfi di Firenze nasce la corrente comico-realistica di Stefano Finiguerri, principale esponente della poesia satirica fiorentina a cui si attribuisce un naturalismo forte e vigoroso (Viviana Ciotoli)


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http://www.italialibri.net - email: - Ultima revisione Mer, 15 mag 2008